È significativo il titolo di questa edizione di YogaFestival: «Dire grazie». Non «gratitudine», ma «Dire grazie». Come «Grazie» è il titolo di questo numero di YogaMind. Diversi mesi fa ho scritto proprio di questo e facevo l’esempio di quando qualcuno ti fa attraversare sulle strisce pedonali e tu gli fai un cenno di gratitudine. Quando succede a me, quando qualcuno mi fa un sorriso o mi alza una mano per ringraziarmi di averlo fatto passare, a me dà allegria. Quella volta però qualcuno mi fece notare che attraversare sulle strisce pedonali è un diritto dei pedoni, mentre le macchine hanno il dovere di fermarsi, quindi perché ringraziare? Si ringrazia qualcuno quando si ferma al semaforo rosso e ti fa passare?
Ecco questa osservazione dà la misura di quanto sia necessario lavorare sulla gratitudine. Dire grazie è un gesto che contiene in sé la gratitudine del gesto, anche se non è dovuto, anche se la persona che hai davanti a te sta facendo il suo dovere di cittadino, o di fratello, o di marito, o di moglie, o di figlio.
Dire grazie è un gesto gratuito che avvicina, è riconoscere che una persona si è accorta di te. Non è importante che avesse il dovere di accorgersi, perché sappiamo bene che non bastano le leggi perché vengano rispettate: ci si deve sempre accorgere che esistono queste leggi e che esistono delle persone la cui vita dipende da queste leggi. L’esempio della strada mi sembrava azzeccato, perché la strada è come un poema epico, è paradigmatico, è un esperimento sociale costante e spesso fallimentare.
«Dire grazie» è la rivoluzione di cui avremmo bisogno per cambiare l’anima di questa nazione ormai alla deriva dal punto di vista umano, sociale, educativo, un Paese che ha perso il senso della comunità, del bene comune, della considerazione dell’altro, della solidarietà tra esseri umani. Un Paese diviso non dice grazie.
Un essere umano, invece, sa di dipendere dal suo vicino. E se non lo sa prima o poi lo capisce, magari quando gli finisce il sale. L’interdipendenza non è un concetto politico, è un concetto umano che non ha colore politico. L’interdipendenza a livello economico è quello che consente ai popoli di poter avere sui banchi dei mercati quello che negli orti e nei campi vicino a casa non c’è. E non soltanto in Africa, in Estremo oriente, nei luoghi più poveri del pianeta, ma proprio sotto casa nostra.
Ogni giorno, quando ci svegliamo, dovremmo dire grazie ad altri esseri umani che a migliaia o a centinaia di chilometri da noi ci danno quello che qui non avremmo. Ora ci sarà qualcuno che mi insegnerà un’altra realtà, e cioè che questo stesso concetto è una delle cause del riscaldamento globale, dell’inquinamento atmosferico, eccetera. Lo so, risparmiatemi la ramanzina. Anche perché quello che sto cercando di dire va oltre i mali della globalizzazione. Non sto parlando di questo, né del fallimento del capitalismo.
Ho l’abitudine di comprare diversi prodotti alimentari in una cooperativa che distribuisce i suoi prodotti in una famosa catena equosolidale. I prodotti che compro non arrivano da km zero, ma sono tutti nascono con un’enorme attenzione al lavoro delle persone, alla terra, alla sostenibilità. Per quanto sia possibile, perché l’impatto zero non esiste e se qualcuno ve lo fa credere, sta mentendo. Detto ciò, ripeto, l’esempio serve per sottolineare il fatto che abbiamo bisogno gli uni degli altri e che dire grazie, anche quando sembra un eccesso, è un gesto che genera benevolenza, apre la mente e apre il cuore.
Dire grazie sono le due parole daranno un futuro a questo mondo in fiamme in cui siamo tutti pronti a puntare il dito e pochi a tendere una mano. Dire grazie anche sui social, questa sarebbe la vera rivoluzione. I social, come la strada, sono l’altra parte dell’epica di quest’epoca. Achille ed Ettore si sfidano a suon di commenti sui post, dove il più sgraziato, maleducato, arrogante, crede di vincere e non si rende conto di dare il peggio di sé.
Dire grazie e il gesto più yogico che esista, perché per noi che pratichiamo, questo «grazie» lo diciamo anche al corpo, alla mente, al respiro, a ogni parte di noi che ci consente di entrare e di restare in un asana, di fare pranayama, di elevare la nostra intenzione. Non darei niente per e di scontato, perché basta un attimo perché tutto ciò non lo sia più. Quindi grazie, grazie a YogaFestival perché ce lo ricorda, e grazie a ciascuno di voi per tutto ciò che nascerà (spero di buono) da questa lettura.
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