Certe volte, quando abbiamo tante idee ma confuse, serve mettere in fila le cose. Quando quest’anno ho ripreso il corso di Raja Hatha Yoga, ho provato a definire ciò che non è lo Yoga (e questo è facile), ma quando ho provato a dire cosa è Yoga, be’, le cose si fanno più complesse. Ci sono diversi testi della tradizione che definiscono lo Yoga in modo diverso:
- «Yoga è quando i sensi sono fermamente sotto controllo» (Katha Upanisad)
- «Yoga è stabilità della mente o abilità nell’azione» (Baghavad-Gita)
- Ancora la Baghavad-Gita dice che Yoga è «la separazione dall’unione con il dolore, è assenza di dolore».
- «Yoga è liberazione»
- Alla fine è arrivato Patanjali e ha definito lo yoga come l’arresto di tutti i pensieri, l’arresto delle ossessioni, delle fluttuazioni continue della mente.
Tutte queste definizioni ci fanno capire innanzitutto che da almeno 5000 anni l’uomo e la donna hanno gli stessi problemi:
- hanno il problema della mente che corre troppo velocemente ed è impossibile arrestarla;
- hanno il problema del dolore, hanno il problema di un attaccamento al dolore che diventa compagno di vita alcune volte;
- hanno l’ossessione di cercare di domare i sensi.
Siamo strutturalmente fatti in questa maniera. Avete mai provato a contrastare un forte desiderio, un forte desiderio sessuale per esempio? Avete mai provato a fermare un’ossessione della mente, un pensiero che vi rimane in testa e non riuscite a fare uscire?
Con la ragione è impossibile. Ed è qui che entra in gioco lo yoga. Lo yoga ha una struttura, si affida ad alcuni esercizi, sia di respirazione, sia di concentrazione, sia fisici. L’insieme di tutto questo fa sì che si inneschi un processo di evoluzione interiore.
Non dobbiamo smettere di pensare. Tutt’altro! Quello che possiamo fare è smettere di essere schiavi delle nostre ossessioni. E questo chi lo dice? Lo dice il nostro testo di riferimento, un testo di psicologia fondamentalmente, Yogasutra, che nella sua seconda frase, frase che si chiama sutra dice: lo yoga è la cessazione degli stati mutevoli della mente.

È la dichiarazione programmatica di Patanjali che è un’affermazione ma che dovrebbe suonare – per noi – come una domanda, una provocazione: il mio yoga mi sta portando verso un percorso il cui finale è una progressiva diminuzione dei pensieri, dei turbinii della mente? Capite bene che a noi Patanjali pone domande più che dare comandamenti. Ma non a guisa di esame di coscienza.
Lo yoga che viene dalla tradizione è uno yoga laico, non ci sono sensi di colpa per chi pratica e soprattutto per chi come noi è su una via tantrica. Hai fatto qualche cavolata ieri o stamattina? E chissenefrega! Non ti devi pulire l’anima, ti devi pulire la mente, i residui della memoria della cavolata e interrogarti qual è il meccanismo che ti ha portato a farla. È diverso! È un percorso nuovo per noi occidentali nati in una cultura colpevolista e moralista. Pensavamo che gli Anni 60-70 con la Beat Generation avesse ripulito il mondo dal perbenismo e siamo tornati agli Anni 30 del secolo scorso.
Vritti non sono i peccati. Citta non è l’anima. Nirodha non è l’assoluzione. È un modo differente di intendere la vita e la morale. Non dobbiamo diventare immorali, non ci interessa neppure questo. Ma è necessario uscire dalla logica peccato/colpa/assoluzione per guadagnare una libertà di pensiero e di azione.
Sappiamo che la mente, per lo yoga, è un complesso di specificità: buddhi, l’intelligenza intuitiva, ahamkara, l’ego, e manas la mente ragionante. Tutto questo è racchiuso in Citta, il luogo di cui si occupa Yogasutra. È la dinamica in cui si muove il nostro tutto e funziona più o meno così. Lo spiegano i Samkya Sutra con una storiella che vi riporto:
Il figlio di un re, per via della nascita sotto una costellazione astrologica infausta, viene espulso dalla città e allevato da un membro della tribù forestale Sabara. Pensa quindi: “Sono uno Sabara!”. Dopo aver scoperto che è ancora vivo, uno dei ministri del re lo informa: “Tu non sei uno Sabara, sei il figlio di un re” Quindi, il figlio abbandona l’idea di essere uno Sabara, accetta la propria identità reale e pensa: “Sono il figlio di un re”. Allo stesso modo l’anima, attraverso gli insegnamenti di un’anima benevolente [il guru], è informata: “Tu sei espressione della prima Anima [Brahman], che è costituita da pura coscienza”. Abbandonando quindi l’idea di essere fatta di prakrti, l’anima pensa: “Essendo figlia di Brahman, io sono Brahman, non un prodotto del samsara”. (IV.1)
Cosa ci dice questa storiella? Ci dice che lo Yoga è quella scienza, quel percorso, che dovrebbe portarci a scoprire la nostra vera natura, e a liberarci da quelle catene materiali che nascono dall’identificazione del sé con l’effimero. Questo è il motivo per cui si dice, ed è effettivamente così, che nello yoga si è sempre eternamente principianti, che non esiste il livello avanzato. Se sentite questa parola, significa che si sta parlando di qualcosa di atletico, di fisico. Ma come avete credo capito, Yoga è una via di ricerca interiore che ha come conseguenza una maggiore consapevolezza, la capacità di chiarezza mentale, una capacità di recuperare una certa serenità e un certo rilassamento, la capacità di guardarsi dentro in maniera onesta, alcune volte cruda, ma sempre con un sorriso sulle labbra.

Nel secondo capitolo della «Bhagavad-gita» si gettano le basi di una prospettiva completamente ribaltata rispetto a quella dell’Occidente: se costruiamo il nostro progetto politico, sociale, scolastico, ecc. dimenticandoci dell’essenza del nostro essere allora sarà arduo cogliere davvero ciò che di bello c’è in questo mondo

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