Sono giorni pesanti questi, lo sappiamo tutti. Il Natale è una festa che ha avuto un forte significato per tutti (o quasi) durante l’infanzia e lo ha ancora per coloro – i cristiani di tutte le Chiese – che vivono questi giorni come la celebrazione della nascita di una speranza e di una certezza di Salvezza. Per tutti gli altri – e mi ci metto pure io – sono i giorni dei ricordi, talvolta delle nostalgie di ciò che non è stato e soprattutto di chi non c’è più. È la celebrazione della mancanza, molto più del 2 novembre. Strano, no?
Dal punto di vista storico, sappiamo essere una festa quasi mitologica perché non conosciamo la data della nascita di Gesù e perché costui nacque a Nazareth e non a Betlemme, questo i teologi lo sanno. Ma poco importa. Rimane il fatto che quella nascita ha fatto da spartiacque e che tutti, anche noi che seguiamo la Via trasformativa dello Yoga, ci dobbiamo fare i conti. Paramahansa Yogananda e Swami Sivananda e Swami Satyananda, tutti in India, hanno preso qualcosa da questa nascita e dalla vita di quest’uomo straordinario che per i cristiani è il figlio di Dio in persona.
Nella società occidentale le chiese si sono svuotate a ogni latitudine e della festa è rimasto il menù, i difficili pranzi familiari e, appunto, la mancanza. Questi giorni sono quelli in cui le relazioni difficili o complicate vivono una fragile tregua, in cui è necessario ritrovarsi anche con persone che non si stimano più o con cui non si ha più niente a che vedere. In cui tutta la nostra meschinità naturale di esseri umani esce o resta sotto il tappeto. Ma noi possiamo vederla o ammetterla seppur con difficoltà e trovando scuse plausibili.
Nei giorni scorsi la mia amica e collega Amalia, vicedirettrice di Rispirazioni, mi ha girato un testo di Swami Sivananda che fa uscire tutti noi allo scoperto: «Le persone, in generale, parlano di amore universale, ma sono molto meschine nelle loro azioni. Fanno mostra di simpatia o di amore con le labbra, con le parole. Questa è ipocrisia». Colpiti, affondati.
In queste settimane sto conducendo le mie lezioni con delle riflessioni sulla non-violenza e il tema è quantomai attuale, non solo a livello geopolitico, ma a livello della società: il mondo sta esplodendo di rabbia. Le vibrazioni di questa rabbia generalizzata generano una violenza nelle parole, nelle relazioni, nei rapporti di coppia. È tutto difficile da sostenere, in tanti giurano di volere “emigrare” da tutto questo, ma ovunque è così. Basta andare in auto o a una assemblea di condominio.
La non violenza è un concetto piuttosto complesso, non basta stamparsi un sorriso sulle labbra e usare modi educati. Per togliere dalla mente, dalle intenzioni, dai pensieri, dai ricordi, dalle labbra qualsiasi goccia di rabbia, di astio e di violenza occorre fare un percorso progressivo e tortuoso. Questo è il percorso dello Yoga. Nessuna sequenza di asana ci porterà – di per sé – a questo, ma in ogni asana potremo ritrovare quei sentimenti e potremo provare a osservare la loro nascita, il loro evolversi, e quello che – a cascata – scatenano nella nostra mente. Solo se vediamo possiamo credere, siamo tutti uguali. Del resto il nostro percorso non è di fede, ma empirico: solo sperimentando possiamo arrivare a comprendere non solo con la mente, ma con tutte le nostre cellule, chi siamo e quali sentimenti portiamo nel cuore. A viverlo.
Insomma, se ho una certezza questa certezza per queste feste e per il 2025 che è alle porte sta nel percorso che lo Yoga mi propone, nelle intenzioni di guardarmi in tutta onestà per fare emergere gemme di realtà e di pace. È l’augurio che faccio a tutti voi. E, ricordate: fra tre mesi è primavera!


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