Siamo portatori sani (e ignari) di Gioia. Nascosta, eppure dappertutto, la gioia nello yoga appare come la sostanza primordiale che impregna e manifesta l’essere, quando non siamo distratti dalle resistenze. Sii felice, ti dicono. Ti pare facile, si risponde spesso. A guardarsi intorno, soprattutto in certi momenti della vita tutto sembra concorrere a farci dimenticare il sorriso e l’entusiasmo. Eppure, udite udite, in quell’esatto istante, convivono in noi infinite probabilità e possibilità di esperienze impregnate di gioia, contemporaneamente alle apparenti valanghe di cupa visione delle cose. Infinite. Dipende da cosa siamo disposti a sperimentare. A cosa siamo abituati a dare nutrimento.
Questo non significa non vedere la realtà, anzi, significa entrare in una modalità di osservazione globale e non parziale, perché la realtà è oltre l’effetto che provoca in ognuno una singola esperienza, solo che, per noi, il granello diviene spiaggia (senza togliere importanza o rispetto per le difficoltà di ognuno).
Per la Gioia vale come per gli obiettivi fotografici: a volte è necessario cambiarli per avere una visione più ampia e chiara. Nella normalità i nostri occhi vedono circa a 180 gradi, se ci si allena anche oltre, ma la chiarezza totale si restringe fra i 40 e i 60 gradi, dopo bisogna ruotare lo sguardo per apprezzare al meglio. E ruotare lo sguardo, significa uscire dai propri schemi. Oppure, piuttosto che limitarci al dettaglio, possiamo espandere il campo con un obiettivo che “apre”, il comune grandangolo. Allora si che tutto sarà più chiaro e luminoso. Certo, il grandangolo distorce, potremmo dire. E qui possiamo già realizzare che cerchiamo sempre il difetto e non la soluzione! La macchia e non la bellezza, il disagio, non la felicità. Impariamo intanto a vedere in modo vasto, come un orizzonte che comprende tutto, cielo, terra, nuvole e raggi di sole, mare, uccelli, stelle, luna e tramonto. Tutto. Perché è in quel Tutto che si nasconde il gioiello. Lasciamo stare l’idea di perfezione.
I grandi Maestri del passato, sia dello Yoga che di altri sentieri di ricerca, offrivano il loro sentire tutti nella stessa direzione. Siamo nati con il diritto alla felicità. Epicuro, nella sua Lettera sulla felicità, scrive al figlio Meneceo che la vita non è compiuta se non è indirizzata verso la felicità, e che la felicità nasce dal togliere, non dall’aggiungere. Per Socrate la felicità è sostanza dell’anima e consiste nella formazione interiore e non certamente negli onori, nel potere e nell’accumulo indiscriminato di ricchezze. Nel De Vita Beata Seneca ci ricorda che la ricerca di felicità esterna è un tranello che ci allontana dal nostro vero io e dalle domande più autentiche sulla vita e sul suo significato. Insomma non è ciò che raggiungi, aggiungi o che riesci (più o meno) ad evitare, che ci offrirà l’essenza della Gioia. Incredibilmente yogico il sentire di Marco Aurelio quando afferma: «La felicità della tua vita dipende dalla qualità dei tuoi pensieri». Dove va l’attenzione lì va l’energia, diceva Paramhansa Yogananda.
Patanjali, nei suoi aforismi ci guida al riconoscere nei Klesa (ignoranza, identificazione attaccamenti, repulsioni e paura della morte, e magari della morte in generale, della fine delle cose, insomma) le cause che sembrano impedire quella che indica la condizione ultima dell’uomo, la Libertà. Libertà da quel sé così piccolo da provare in continuazione la necessità del conflitto per esistere, per imporsi. Cause che velano l’Essere soffiando nebbia sulla sua sostanza, Sat Chit Ananda. La stessa definizione di ciò che nel tempo, nella terra del Mahabarata, venne chiamato Dio, ma che ha infiniti nomi o nessuno, non importa, quello è.
Se chiamarlo Verità, Assoluto o Albero Madre o Coscienza Cosmica, ci rende più appetibile la questione, ben venga. Credo di aver fatto pace con questo nome, Dio, quando ho smesso di giudicarmi. Quando ho smesso (e smetto) di giudicare gli altri. Quando ho interrotto (e interrompo) lo scorrere sottile del senso di colpa. Quando l’idea di “peccato” si è trasformata in “errore da poter correggere”. E da quando inferno e paradiso ho sentito essere condizioni della coscienza in questa vita, a seconda delle azioni o dei pensieri che nascono in me. Tutto perennemente in trasformazione.
Brahman è Atman, dicono i testi indovedici. La Coscienza Universale e la Coscienza Individuale (elevata, priva di identificazioni), sono la stessa cosa, offre la visione dello yoga. La nostra anima è scintilla dell’Infinito, del divino. E così, gli appagamenti momentanei che inseguiamo nella vita, dicono i grandi maestri, sarebbero un surrogato insoddisfacente, ma ci ricordano da dove arriviamo. Germogliamo dalla Gioia. Il Sé è Ananda. Sat Chit Ananda. Essere, Coscienza, Beatitudine. Ancora Yogananda traduce con Beatitudine sempre Cosciente, sempre Esistente, sempre nuova. Gioia che si rinnova in ogni istante. Ogni istante è impregnato di Gioia, ma ci sfugge, perché impegnati nel cercarla. Non riusciamo a percepire la Gioia, perché non lasciamo andare davvero quello che la impedisce: Il desiderio di ottenerla.

Nulla di esterno può modificare stabilmente una condizione interiore. Anzi è proprio l’interrompere le catene dei sensi sulla necessità di subire l’impatto che hanno con tutto ciò che ci circonda, che dona l’inizio della Felicità. Lo zerbino sulla porta d’accesso con scritto su«Wellcome in happiness», si chiama Pratyahara, dice Patanjali. Nella Gioia si entra senza orpelli. La Gioia di cui si parla nello yoga, è qualcosa che non riguarda la soddisfazione, piuttosto, forse, quasi del suo contrario. È offerta dalla libertà dall’attaccamento e dalla necessità di ottenere o rifiutare ogni qualsivoglia manifestazione che appare sullo schermo della nostra mente.
Siamo in costante inconscia relazione e dipendenza con una funzione mentale che produce 60/70 mila pensieri al giorno fra positivi e negativo-limitanti e che impone, a nostra insaputa, regole per descrivere modelli che potrebbero garantirci pseudofelicità, che sfioriscono al loro apparire. Non può essere quella la Gioia! Non è per niente scontata la Gioia a tal punto da essere stata riconosciuta come la stratificazione più profonda del nostro Essere sin dalle radici dello Yoga. Ma il paradosso è che, proprio perché ben tutelata dai diversi involucri, ci sembra una chimera. Eppure è la nostra matrice. Il nostro seme è Ananda!
Alcuni versi di Yogananda recitano «Dalla Gioia venni, nella Gioia vivo, in sacra Gioia mi immergerò». Non quando il mio corpo avrà terminato la sua funzione qui sulla terra, ma ORA, nel dono della meditazione di interrompere la conflittualità continua che questa cascata di chiacchiere riversa sul fondale (termine teatrale che descrive il limite della scena) della Coscienza, facendoci credere di essere padroni della nostra esistenza, invece che ospiti temporanei e disinnescabili dalle nostre abitudini. La meditazione è allenarsi alla Gioia. Il tempo lentamente ne rivela il dono, a nostra insaputa. È il grandangolo della vita. È allenarsi all’abbandono. Isvara pranidhana è condizione essenziale, dove Isvara, è solo un altro nome.
Siamo nella Gioia quando smettiamo di porre condizioni affinché questa sia. Perché è come dire «siccome non vedo il mio sangue scorrere allora non sono vivo». Siamo nella Gioia quando per un istante si creano le condizioni in cui, esaurita la necessità che tanto inseguivamo, ancora non è sorto il prossimo desiderio. In quel vuoto, siamo. Siamo nella Gioia quando al contrario dei versi della vecchia canzone, non releghiamo la noia nel buio dell’insoddisfazione, ma diviene campo neutro dove il nuovo può esprimersi.
Siamo nella gioia quando viviamo nella gratitudine. Un GRAZIE è già Gioia. Siamo nella Gioia quando è così costante la nostra presenza e attenzione nell’azione che compiamo, nei pensieri che affiorano, che non osserviamo altro che ciò che è. Siamo nella gioia quando riusciamo davvero a vivere il nostro respiro, fino a divenirne ospiti, non padroni. Siamo nella Gioia quando il recinto della nostra mente cessa le sue dimensioni comode e predefinite arrendendosi. E diviene Infinito. E in quell’Infinito non c’è più alcun nome. Siamo Gioia sempre, ma non ce ne accorgiamo. Forse perché vogliamo dargli un nome.

Nel secondo capitolo della «Bhagavad-gita» si gettano le basi di una prospettiva completamente ribaltata rispetto a quella dell’Occidente: se costruiamo il nostro progetto politico, sociale, scolastico, ecc. dimenticandoci dell’essenza del nostro essere allora sarà arduo cogliere davvero ciò che di bello c’è in questo mondo

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