Quante volte abbiamo fatto una pratica di yoga dedicata ai cakra? Innumerevoli. E cosa abbiamo assimilato di quella pratica? Cosa ci è rimasto impresso nella coscienza? Forse ci ricordiamo che muladhara è collegato all’elemento terra, e che svadhistana ha sei petali. Che manipura è la sede dell’autostima e che il verde è il colore di anahata. Anche su vishuddha e ajna potremmo citare a memoria colori, petali, organi e bija mantra correlati. Sicuramente la conoscenza di tutti questi dettagli non è priva di valore. Ma dal punto di vista dell’esperienza diretta tutto ciò significa davvero poco.
Secondo la visione indiana ogni filosofia, per essere valida deve diventare “carne e sangue”, deve diventare vissuto, dev’essere esperita direttamente. A maggior ragione lo Yoga, che nasce proprio come ortoprassi della visione del mondo prospettata dal Samkhya.
Ma cosa vuol dire, per lo yoga, fare esperienza diretta? Vuol dire conoscere intuitivamente, cioè bypassare la mente e i suoi condizionamenti karmici, vuol dire oltrepassare la dimensione percettivo sensoriale offerta dal corpo. Conoscere al di là dei limitati confini della materia.
Tutti noi praticanti sappiamo che lo Hatha Yoga utilizza il corpo come strumento di indagine verso la conoscenza più pura del Sé. È una via iniziatica che mira a far incontrare l’energia potenziale con l’energia cosmica, Sakti con Siva. Tutte le tecniche hatha-yogiche che pratichiamo ancora oggi (āsana, prānāyamā, mudrā, bandha…) sono nate per questo scopo. Il fatto che il più delle volte noi le usiamo per scopi assai meno nobili non elimina il fatto che esse servano a raggiungere l’espansione della coscienza, cioè quel mistico travaso della percezione del nostro essere dentro una dimensione che oltrepassa i limiti posti dal corpo fisico e dai contenuti vrittci della mente.
Sapere il colore dei cakra e non riuscire a riconoscere e a contattare l’energia specifica che questi centri rappresentano è il segnale che stiamo praticando parzialmente, che ci stiamo limitando a usare la dimensione cognitiva, l’immaginazione. In soldoni questo significa che non vogliamo davvero affidarci allo yoga e che stiamo sì praticando, ma col freno a mano tirato, tenendo in piedi delle riserve mentali, degli “aggrappamenti” di vario genere alla modalità percettivo-sensoriale del conoscere.
Ma se vogliamo ottenere i “doni dello yoga”, come li chiama Antonio Nuzzo, dobbiamo mettere nella pratica il 100% di noi stessi. Essere cioè sinceri, onesti, amorevoli, accoglienti. Disposti a lasciare che le cose accadano senza mascherare le ombre, senza mettere la polvere sotto il tappeto. Sia come insegnanti che come allievi. Ricercando sempre il significato sottile e simbolico che si cela oltre la tecnica, oltre la forma. Oltre lo “stramaledetto” āsana.
Per tornare al tema dei cakra, sicuramente ci sono tantissimi āsana che “lavorano” su ciascuno di essi. Ma il semplice fatto di mettersi in kurmasana per contattare muladhara, o mettersi in matsyasana per stimolare anahata (e via dicendo, fino alla sommità del capo e oltre), non garantisce un automatico rapporto di causa-effetto. Nel corpo non abbiamo un interruttore che accende i cakra in base alle varie tecniche hathayogiche, a meno che queste tecniche non siano sostenute da una precisa ed espressa intenzione. Ci mettiamo in āsana, ma la nostra direzione è quella della ricerca interiore? Abbiamo preso coscienza della nostra condizione di base, del vissuto da cui partiamo prima di praticare? Cosa abbiamo in mente? Cosa ci aspettiamo di ricevere dalla pratica? Risultati sul piano fisico? Trasformazioni caratteriali? Lasciamo veramente che le cose accadano o teniamo in un angolino un piano B (come, legittimamente, facciamo nella vita ordinaria)? Bisogna rifletterci. E poi, ammesso che mettendoci in kurmasana abbiamo stimolato muladhara, l’indomani che cosa è cambiato nella nostra vita? Assolutamente niente, se abbiamo usato queste parole solo superficialmente. Se ci siamo limitati all’atteggiamento yogico e non c’è stato un vero incontro fra il significante e il significato.
Quando parliamo di muladhara, stiamo parlando di radicamento, di istinto animale, di sopravvivenza. Qualcosa che ha a che fare con la condizione di un animale ferito nella giungla, che fa appello alla sua energia di autoguarigione per poter continuare a vivere. Per alcuni esseri umani molto sfortunati questo scenario è ancora tristemente attuale. Per molti di noi, privilegiati occidentali, il concetto di sopravvivenza è fortunatamente venuto meno, ma il nostro cervello più antico continua a ricercarlo secondo nuovi criteri. Per questo vogliamo più soldi, più oggetti, più cibo, più potere … E l’autoguarigione? La spinta interna c’è sempre, ma di fatto la facoltà di auto-conservarci l’abbiamo “esternalizzata”. Spesso delegandola alle medicine. Non siamo più capaci di ascoltare cosa ci dice il corpo.
Per lavorare su muladhara cakra, mettiamoci in un qualsiasi āsana e contattiamo la nostra energia di autoguarigione. Forse fino a oggi nemmeno sapevamo che ci fosse, e che fosse correlata a questo cakra di cui conosciamo tutte le caratteristiche. Ora però non abbiamo più alibi. Fermiamoci e ascoltiamo cosa ci comunica il corpo attraverso l’insonnia, il reflusso gastrico, il mal di testa o la colite. E poi prendiamo coscienza del nostro attaccamento alle cose. Veramente ci serve quel nuovo giubbotto? Quel paio di scarpe? Quell’elettrodomestico che fa i popcorn? Veramente non possiamo fare a meno di ordinare un sushi a casa consegnato da una persona in bici, sotto la pioggia?
Vogliamo lavorare su svadistana cakra? Mettiamoci in un qualsiasi āsana e contattiamo le nostre pulsioni. Qual è l’intenzione alla base delle nostre azioni? Abbiamo veramente indagato le paure più recondite che, di solito, sovrintendono ogni nostro agito? Ci siamo fatti una vaga idea di quale sia il nostro karma personale e familiare? Dei meccanismi diabolici che non facciamo che ripetere, salvo poi incolpare delle nostre miserie eventi esterni e altre persone? Da dove vengono i nostri desideri più inconfessabili? E dove ci portano? Non sono domande facili, e le risposte il più delle volte non ci piacciono. Ma siamo o no dei ricercatori? Quindi dobbiamo farcele senza sentirci in colpa. Tutto questo fa parte della nostra natura umana. Non dobbiamo né negare, né reprimere queste energie. Dobbiamo sapere che gli attaccamenti e le pulsioni sono alla base del processo vrittico della mente, e che è necessario un grande lavoro sui centri energetici più alti per riequilibrare l’enorme potenziale karmico dei primi due cakra.
Per contattare manipura cakra ci sarà sufficiente stare seduti e analizzare quante volte durante la giornata abbiamo detto “io” e “mio” nelle conversazioni. Quante volte abbiamo sentenziato, sopraffatto, sbuffato e reagito malamente. Quante volte abbiamo saputo trasformare una situazione in un reciproco vantaggio e quante volte, invece, l’abbiamo trascinata in basso, verso la prevaricazione egoica o il possesso. Quante volte abbiamo esercitato controllo e manipolazione. Energeticamente parlando, per arrivare alla consistenza dell’aria, che è la dimensione del cakra anahata, tutto ciò che proviene dal basso (cioè le energie della terra, muladhara e dell’acqua, svadistana) dev’essere stato risolto. Bruciato e trasformato dal fuoco di manipura.
Ma se siamo ancora pieni di attaccamenti, pulsioni, invidie e rancori con quale coraggio ci mettiamo in āsana a cercare l’energia di anahata? Che speranze abbiamo di contattare l’energia dell’amore incondizionato? Assai poche. Bisogna sapere che la trasformazione operata dal fuoco di manipura può andare in due direzioni. O andare verso l’alto e diventare amore incondizionato, o essere distruttiva, e far ripiombare in basso tutto il lavoro fatto. Tutto dipende dall’ego. Se siamo stati capaci di ridurlo o se invece lo abbiamo nutrito.
Per stimolare il centro energetico di vishuddha mettiamoci in āsana e cerchiamo di percepire se c’è sincronia fra i nostri processi mentali e i ritmi interni del corpo. Di solito la mente va a folle velocità balzando da un contenuto a un altro, mentre il cuore, il respiro, i ritmi circadiani e la peristalsi vanno ciascuno per la propria strada. E quando non c’è unione ma frammentazione, non ci sono i presupposti per risvegliare l’energia purissima di vishuddha. L’energia che sovrintende la comunicazione fra l’esterno e l’interno, che risveglia l’intelligenza creativa. Lo spazio che avvolge l’aria e il tempo – passato, presente e futuro – e ci conduce spontaneamente al pratyāhāra.
Le pratiche per stimolare il “terzo occhio” sono centinaia, perché lì “risiede” Siva, il dio che ha donato lo Yoga al mondo. Ajna cakra rappresenta l’energia della mente, la visione diretta, non mediata dai condizionamenti delle vite presenti e passate. Poiché dà una direzione al pensiero è lo strumento che ci rende capaci di trascendere la condizione umana. Per stimolare ajna cakra possiamo metterci in āsana e riflettere su quante delle nostre azioni siano in realtà reazioni. Su quanta energia utilizziamo costantemente nella ricerca e nell’accumulo di beni materiali e vantaggi personali. E quanta invece ne dedichiamo alla compassione, all’empatia, all’accoglienza, alla spiritualità. In sostanza a riflettere su quanto karma continuiamo a creare intorno e dentro di noi.
Per lavorare su ajna cerchiamo di capire chi siamo davvero e chi invece crediamo di essere. Riflettiamo sulla nostra identità e sulla nostra immagine esterna. Sullo scollamento che spesso si produce fra queste due parti di noi. Sulla confusione che creiamo quando crediamo che il corpo sia la coscienza.
In definitiva lavorare sui cakra significa mettere sulla bilancia le nostre specifiche energie e verificare che tipo di Energia generale esprimiamo. Forse riusciremo a cogliere certi eccessi che non ci farà piacere riconoscere. Tuttavia sarebbe un errore fatale negarli e “buttare via il bambino insieme all’acqua sporca”. Non ci sono energie buone ed energie cattive. Nel grande quadro della nostra presenza su questa terra anche gli istinti e le pulsioni sono elementi fondamentali. Come yogin, semplicemente, non possiamo permettere loro di dirigere la nostra vita.
Come possiamo favorire lo sblocco delle energie bloccate in basso? Come possiamo far sgonfiare certe ipertrofie egoiche? Osservando, obiettivamente, la nostra intenzione nella pratica. Introducendo nella pratica l’etica dello yoga. Il tappetino è il luogo della verticalizzazione dell’Energia, è un luogo sacro, che dovremmo vivere tenendo sempre accesa la luce sugli yama e i niyama.
I cakra sbocciano, e cominciano a funzionare correttamente, quando il messaggio etico dello yoga è progressivamente introiettato e, nutriti dalla costante pratica, riusciamo a fissarlo nelle pieghe più profonde della nostra coscienza.
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