La prima volta che ho incontrato Gabriella Cella è stato nel 1980 in occasione di un suo seminario a Parma sullo Yoga per gestanti. Da allora sono sua allieva e nel corso degli anni si è consolidato anche un affettuoso e prezioso rapporto di amicizia.
Grazie Gabriella per questa intervista, è un grande regalo di generosità da parte tua e un grande onore per me. Oggi sei una Maestra famosa e riconosciuta. Sono tantissimi gli insegnanti che seguono il metodo Yoga Ratna da te ideato, moltissime le persone che ti conoscono attraverso i tanti libri che hai scritto e i seminari che hai tenuto. Quello che ti chiedo oggi è di ritornare un po’ indietro negli anni per raccontare chi era Gabriella Cella quando ha incontrato lo yoga, come hai iniziato a praticarlo e cosa ti ha fatto appassionare a questa disciplina?
«Siamo negli Anni 70. Io provengo da una famiglia proletaria, mio padre aveva rotto con la sua famiglia di origine ed eravamo davvero molto poveri. Sembra strano oggi parlare di proletariato, ma questa condizione ha fortemente segnato tutta la mia storia. Ero molto attiva come femminista, una delle prime a Piacenza e a Pavia dove avevo organizzato i primi gruppi di donne autogestiti, quelli che poi hanno portato alla nascita dei consultori e alle lotte per il divorzio e l’aborto».
Che lavoro facevi? E come hai incontrato lo yoga?
«Ho fatto tanti lavori come operaia e anche come disegnatrice e come impiegata. Ho studiato all’Istituto di Belle Arti, ero molto brava a disegnare e a quei tempi avrei voluto fare l’artista. L’incontro con lo Yoga è stato del tutto fortuito: avevo trovato un lavoro nell’ambito della Moda in un maglificio dove mi avevano assunta come indossatrice. Il mio principale era un allievo di Jean Klein e di Carla Perotti e un giorno passando davanti a un’edicola ha chiesto se avevano una rivista di Yoga. Non avevo mai sentito parlare dello Yoga e davanti a quell’edicola scattò in me il desiderio di capire cosa fosse. Ho incominciato così a leggere dei testi e a interessarmi all’Oriente. Allora avevo molti disagi fisici, una schiena messa male, forti mal di testa e problemi al fegato. Incuriosita dallo Yoga e leggendo dei suoi possibili benefici, ho deciso di affrontare le mie problematiche fisiche in modo diverso da quello tradizionale. Sapevo che a Piacenza c’era una giovane avvocatessa che dava lezioni di Yoga, le andai a parlare e mi prese come allieva. Fui conquistata dalla pratica che proponeva, molto impegnativa fisicamente e iniziai non solo a seguire le sue lezioni, ma anche a praticare da autodidatta molto intensamente. Alla mattina prestissimo prima del lavoro facevo le pratiche di purificazione (pulizia dei denti, della lingua e delle narici) poi tanti Saluti al sole seguiti da posizioni ardite. Poi andavo al lavoro. Ricordo che il mio capo aveva una grande scrivania con l’imbottitura in similpelle. La tenevo molto in ordine e pulita; quando lui non c’era e io ero in pausa pranzo diventava il mio spazio per la pratica. Praticavo sempre, non appena mi era possibile».
Come hai iniziato a insegnare?
«Ho iniziato a insegnare al gruppo delle mie amiche femministe di Piacenza e di Pavia. Ero la loro leader e loro accettavano di buon grado tutto quello che proponevo. Quando iniziai a insegnare mi dedicai a uno “Yoga al femminile” sperimentando innanzitutto su di me e sulle mie allieve i cambiamenti prodotti dagli asana. Solo in anni successivi ammisi anche gli uomini ai miei corsi. Nel 1976 incontrai Carlo Patrian che aveva fondato una delle prime Scuole di Formazione insegnanti yoga a Milano, mi iscrissi alla sua scuola, a un certo punto lui smise di guidare la pratica e incaricò me di farlo. In quegli anni Patrian chiamò in Italia tanti Maestri indiani e fu grazie a lui che conobbi Swami Shankarananda della Vedanta Forest Academy di Rishikesh, che mi colpì profondamente. Fu allora che decisi di lasciare tutto e andare in India per seguire il suo insegnamento».
Tu sei stata una delle prime donne a fare da sola lunghi viaggi in India. Cosa vuoi raccontare di quella esperienza che hai descritto molto bene nei tuoi racconti L’India del sorriso”.
«Era il 1979, lavoravo in una fabbrica di mattonelle, ho deciso di licenziarmi, lasciare tutto e con la liquidazione andare in India. Allora esisteva un biglietto speciale che durava 35 giorni al termine dei quali sarei dovuta uscire e rientrare. Per fortuna i miei genitori erano giovani e mi aiutavano a tenere mio figlio mentre io andavo e tornavo dall’India. Io volevo raggiungere il mio Maestro Shankarananda a Rishikesh, ma arrivata all’ashram mi dissero che il Maestro in quel momento viveva in Sud Africa. Inoltre come donna non potevo stare all’ashram e quindi trovai alloggio a qualche chilometro di distanza. Era la stagione dei monsoni, camminavo a piedi sotto la pioggia e arrivavo bagnata alla lezione, dove si praticava uno yoga massacrante e dove mi sentivo isolata dai miei compagni di corso, tutti maschi figli di brahmini che non mi accettavano in quanto donna . Dopo un po’ di giorni nonostante il mio impegno e determinazione ho comunicato allo Swami Krishnananda che sarei andata via».

E lui cosa disse?
«Allora lui impietosito mi trovò un posto per dormire dalle monache che vivevano nell’Ashram. Così frequentai tutte le lezioni e presi il diploma. Sono tornata molte altre volte in India e non ho mai avuto problemi. La ragione è anche che io vivevo scalza, non avevo bagaglio e mi vestivo come le donne indiane, mi presentavo, ed ero, come una pellegrina. È in quell’India autentica, meno violenta di oggi, non contaminata dal turismo che ho potuto attingere alla fonte dello yoga. Sono molto contenta di aver fatto questa esperienza irripetibile, talmente tanto particolare che addirittura oggi mi sembra di aver attraversato un sogno».
In quegli anni hai aderito alla Federazione Italiana di Yoga?
«Sì, ma solo all’inizio. Ricordo che ci fu un momento di grande conflittualità interna alla Federazione; mi arrivò una lettera da cui si capiva che c’era una frattura fra diverse correnti (in effetti poi ci fu una scissione). Cestinai la lettera e non mi iscrissi mai più a nessuna Associazione. Non è nella mia natura. Anche la mia scuola Yoga Ratna non prevede nessuna forma di adesione o tesseramento».
Il tuo primo libro, pubblicato nel 1982 è stato Yoga e salute, un tascabile Bompiani che poi ha avuto un successo clamoroso ed è stato ripubblicato in tante edizioni.
«Yoga e salute è stato il mio primo libro, ancora non avevo messo a punto quello che poi sarebbe diventato lo Yoga Ratna. Ma per la prima volta erano presenti indicazioni e riferimenti al femminile, al periodo del ciclo e a disturbi a esso legati. Infatti più approfondivo la pratica più sentivo cosa producevano gli asana su di me e che effetti profondi avevano nel mio corpo di donna. Inutile dire che come femminista e come donna non accettavo il fatto che lo yoga fosse declinato solo al maschile, tutti i manuali e tutte le pratiche venivano proposte come se coloro che praticavano fossero solo uomini. Era necessario ribaltare l’orizzonte e porre attenzione al mondo femminile. Ho studiato, sperimentato su di me e sulle mie allieve e così ho individuato tutti gli effetti che gli asana producono in relazione al ciclo mestruale, alla gravidanza e alla menopausa. Evidenziando le pratiche utili per ogni circostanza, le cautele da adottare e le controindicazioni di alcuni asana».
Quando è nato il tuo interesse per il mondo del simbolo e quando hai messo a punto il metodo Yoga Ratna?
«La svolta, quella che mi ha portato ad ideare lo Yoga Ratna , è stato lo studio e la sperimentazione delle valenze simboliche dello yoga. Eravamo negli Anni 80: frequentavo il corso quadriennale di formazione di Riza, Istituto di medicina psicosomatica, volevo capire la relazione fra corpo fisico e psichico. Da lì iniziò il percorso affascinante che ancora oggi mi interessa. Iniziai una lunga collaborazione con Riza che pubblicò numerosi numeri con miei approfondimenti monotematici, e grazie agli studi sulla psicologia junghiana mi sono appassionata ai miti, alle storie delle divinità, alla corrispondenza fra le forme del corpo negli asana e i loro echi simbolici. Mi preme sottolineare che il lavoro simbolico non esce dai canali dello yoga tradizionale, ma ne è un arricchimento che richiede molto studio e molta consapevolezza nel lavoro su di sé».
Quando hai fondato la scuola Yoga Ratna?
«Nel 1991 ho fondato la scuola Yoga Ratna e da allora sono veramente tantissimi gli insegnanti che portano avanti il mio metodo. Volevo fermarmi a 108 diplomati, come i grani della mala, ma le richieste sono sempre state tante che sono andata oltre».
E qui si aprirebbe un nuovo capitolo, quello degli anni 90 e del metodo Yoga Ratna. Un bel tema per un altro incontro. Intanto se puoi definirlo con poche parole…
«Yoga Ratna significa “il gioiello dello yoga” ho dato questo nome a questo metodo che racchiude tutto ciò che ho imparato ed elaborato nel corso di tantissimi anni: tutti gli insegnamenti e le pratiche della tradizione ortodossa integrate da un rigoroso approfondimento del lavoro simbolico, ossia su come la forma del corpo rappresentata dall’asana viene percepita dal praticante favorendo il suo percorso di consapevolezza. Ho ideato tante forme studiate sulla base dei molteplici miti e divinità del mondo indiano, forme che ci consentono di sperimentare tutte le possibili manifestazioni dell’esistenza».
Mi piace definire lo Yoga che mi hai trasmesso come uno yoga democratico, laico e non dogmatico. Mi ha colpita, e confesso che questo è uno dei motivi che mi ha portato ad essere tua allieva, il tuo modo di porti: accogliente con tutti, generosa, ben distante dalla immagine di guru inavvicinabili. Questa tua generosità ha anche delle criticità?
«Mi ci ritrovo nelle definizioni che hai dato, ho sempre pensato che nello Yoga non dovessero esserci segreti, ho sentito come mio dovere quello di diffondere gli insegnamenti ricevuti e tutto quello che ho elaborato. Vedo purtroppo che qualche insegnante propone i miei insegnamenti senza citare la fonte, addirittura sono stati scritti libri utilizzando le dispense della scuola e i miei studi senza neppure far riferimento allo Yoga Ratna. Questo è il pegno da pagare, ma per me, che sono sempre stata una donna libera, è indispensabile dare alle persone spazio e libertà».
Abbiamo concluso l’intervista con un ricordo intimo che oggi ci ha fatto molto sorridere. Ogni mese, dopo il fine settimana in cui frequentavo la scuola, e per ben 4 anni, io scrivevo a Gabriella lunghissime lettere, lettere che mi sgorgavano copiose come se la pratica con lei sciogliesse tutti i nodi della mia vita. A distanza di trent’anni mi sono scusata con Gabriella per questa mia eccessiva ingerenza e per l’abuso di pazienza e lei con la sua solita serenità mi ha detto: «Le ho sempre lette tutte, ma povera me se ogni allieva avesse fatto come te…».


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