Se non avete ancora visto A Complete Unknown fatelo questa settimana. È un consiglio spassionato e qui cercherò di spiegare perché è un film importante. Per me e per diverse generazioni, dai Boomer alla Z.
Il film racconta i primi anni dell’immensa carriera di Robert Zimmerman, cantautore di Duluth (Minnesota), diventato famoso col nome di Bob Dylan (pare per ammirazione per il poeta Dylan Thomas). Racconta la sua ascesa nel mondo del folk, le canzoni che sbugiardavano i signori della guerra (Masters of War), che gettavano in faccia alla generazione uscita dalla Seconda Guerra Mondiale che se c’erano risposte alle certezze erano solo nel vento (Blowin’ in the Wind) perché le contraddizioni erano ormai insopportabili. Gli bastava una chitarra, un’armonica e la sua voce sgraziata e roca per sbattere in faccia ai benpensanti la rabbia di una generazione che di lì a poco avrebbe dato vita all’Estate dell’Amore (la Summer of Love), alla protesta contro il Vietnam, il moralismo e i vestiti inamidati dei genitori.
Lui, Bob Dylan, è stato il maggiore profeta di questa onda straordinaria il cui epilogo non è sempre stato buono (l’eroina, il terrorismo in Italia, vite bruciate con l’acido, il “club dei 27” quello delle giovani star uccise a 27 anni dagli eccessi). Dylan io l’ho scoperto nel periodo dell’adolescenza, dopo che una mia cara zia mi regalò una Eko Fiesta costata 12 mila lire, il cui manico campeggia ancora solitario su una parete di casa: il mio primo disco è stato Before The Flood, doppio dal vivo con la Band, ormai consumato con le famose “righe” che fanno “tac” a ogni giro. In quell’album straordinario (è del ‘74) ci sono molti dei suoi inni, tutti elettrificati sì, ma con l’apporto “calorico” del gruppo di Robbie Robertson (a parte tre chicche acustiche meravigliose come Just Like a Woman, It’s Alright Ma e Don’t Think Twice It’s All Right, le mie preferite).
Bob Dylan, anche per noi che capivamo poco o niente e ci affidavamo alle traduzioni non proprio impeccabili di Fernanda Pivano, ha rappresentato una speranza di un mondo migliore. Scrive Philip Goldberg, brillante autore di American Veda e di una biografia di Yogananda e insegnante di Yoga e meditazione: «Il film cattura brillantemente lo spirito di rottura dei confini dei primi-metà anni Sessanta. Fu un vero tsunami culturale». Ecco, quello fu: «I confini più sottili che venivano demoliti all’epoca erano quelli della mente, della consapevolezza, della fede, della visione del mondo, della percezione. Una nuova coscienza spirituale stava nascendo».
La visione del mondo, ha cambiato la visione del mondo. Quello che racconta il film – e cioè gli inizi del successo di Dylan fino al concerto di rottura al festival folk di Newport in cui si presentò con l’elettrica e fu pesantemente contestato – «fu l’inizio della rivoluzione spirituale che ho raccontato nel mio libro, American Veda», spiega Goldberg su Substack; «I giovani come me, nuovi abitanti con gli occhi spalancati di quella che sarebbe stata chiamata la controcultura, erano cercatori della verità (…). Ci ponevamo le Grandi Domande: Chi sono? Cosa costituisce la felicità? Qual è il nostro vero potenziale e come possiamo realizzarlo?».
Ah già il film… Timothée Chalamet ci ha messo 5 anni per entrare in una parte difficile, ha preso lezioni di chitarra, suona e canta tutti i brani dal vivo ed è bravissimo: la sua voce ricorda quella originale, più di quanto mi aspettassi. L’attrice che impersona Joan Baez, Monica Barbaro, aveva un’impresa titanica da compiere e ci è riuscita al 90 per cento, ha davvero una voce incantevole (anche se quella della Baez è inarrivabile per carattere e potenza). Peter Seeger è impersonato da un grande Edward Norton. Alla fine l’alchimia restituisce un periodo e un’artista. Insomma, ottimo lavoro del regista James Mangold, sceneggiatore di Walk the Line, altro film su un mito della musica americana, Johnny Cash. Non era facile, ci regala 141 minuti molto piacevoli e interessanti.
Ebreo di nascita, Bob Dylan ha frequentato gli Hare Krishna di Baktivedanta Prabhupada a San Francisco, ha avuto un periodo come “rinato cristiano” che gli ha fatto comporre tre album. Alla fine ha chiosato così: «Questa è una verità assoluta: ho trovato la religiosità e la filosofia nella musica. Non l’ho trovata da altre parti». Punto.
Ecco cosa è stato Dylan. Più di Presley, più dei Beatles (che gli devono moltissimo), più degli Stones. Stiamo parlando di poesia, non solo di note, di quelli che sono i principi dello Yoga, la non-violenza, la verità, l’onestà… Li incarna tutti, li ha sempre incarnati in tutte le sue trasformazioni: in uno dei suoi concerti che ho visto aveva talmente stravolto i suoi capolavori in chiave rockabilly da risultare quasi insultante e inascoltabile (difatti me ne andai: il primo nel 1984, invece, fu memorabile con supporter del calibro di Pino Daniele e i Santana).
La sua poesia ha meritato il Nobel, sì. Non lo ritirò perché era nel pieno di un tour e il suo “contratto” con la gente valeva di più. La sua grandezza va al di là dello star system, delle interviste e della sua vita tormentata e tormentante. C’è un documentario che racconta molto di lui su Netflix (The Rolling Thunder Revue: sto ascoltando il doppio dal vivo mentre scrivo) con spezzoni intimi davvero meravigliosi. Ecco A complete Unknown mi ha fatto tornare una gran voglia di Dylan. Voglia che non mi è mai passata, invero, difatti nel mio primo viaggio a New York ho dedicato una mattina a visitare i suoi luoghi nel Village.
Lui è stata una vera immensa ispirazione. Qualcuno ha detto che artisti come lui nascono ogni 3-400 anni. Sono d’accordo. E se non ci credete leggete i suoi testi, sono usciti libri bellissimi con ottime traduzioni. Vi emozioneranno. Perché la sua modernità è quella della poesia e degli inni sacri. Lasciatevi ispirare perché oggi come non mai avremmo bisogno di una rivoluzione pacifica e poetica come la sua.
Bob Dylan con Joan Baez nei primi Anni 60 (Foto di WikiImages da Pixabay).
P.S.
Se dovessi dare un consiglio su quale disco comprare a una persona che non lo ha mai ascoltato prima, non ho dubbi:
Freeweelin’, secondo album, il più famoso;
Blood on the Tracks, forse il suo più bello;
Infidels, quello di Hurricane;
Oh Mercy del 1989;
il magnifico primo album dei Traveling Wilsbury (Traveling Wilburys Vol. 1), il supergruppo formato con l’amico George Harrison, Tom Petty, Roy Orbison e Jeff Lynne.
Buon ascolto, se vi pare…
Qui sotto Blowin’ in the wind cantata da Chalamet/Dylan: con lui c’è Barbaro/Baez.
E qui sotto, invece, Blowin’ in the Wind cantata dal vero Bob Dylan nel 1963.
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