Cosa ci porta a fare yoga? Per lo più la ricerca di abilità fisiche e il desiderio di stare meglio. E se invece la pratica ci portasse molto ma molto più in alto? Se ci portasse in una dimensione di luce, beatitudine e perenne comunione? La cosa ci atterrisce o ci attrae? Siamo pronti a questo viaggio, e cosa siamo disposti a fare per arrivarci?
Quando siamo sul tappetino per la pratica dello hatha-yoga ci vengono impartite delle istruzioni che smistiamo ed eseguiamo grazie alla mente analitica, quella che nell’ordinario ci dice: «fai questo», «non fare quello», allo scopo di proteggere la nostra biologia dai più svariati pericoli e permetterci di sopravvivere e riprodurci. Eseguire le istruzioni è indispensabile per la buona riuscita degli āsana, dei prānāyāma, dei kriya e di tutte le innumerevoli tecniche dello hatha-yoga, ma dopo aver preso la posizione, iniziato a gestire il respiro e a muovere la Coscienza, bisogna necessariamente prendere le distanze dalla mente operativa per fare spazio alla mente superiore, quella che è più capace di avvicinarsi al Sé.
Invece, molto spesso, abbiamo paura a lasciare i riferimenti cognitivi. Non riusciamo a distaccarci dalla dimensione percettivo-sensoriale. Siamo come quei cagnolini che sembra stiano dormendo ma se vola una piuma scattano come molle. Però se pratichiamo restando ormeggiati al mondo fenomenico impediamo alla nostra nave della consapevolezza di salpare. Non ci sarà nessun viaggio, nessuna avventura, solo la convalida delle nostre abitudini, spesso ripetitive e stantìe. Invece di “nirodhizzare” (fermare) le vritti (le fluttuazioni della coscienza), per dirla con Patañjali, le rafforziamo.
D’altro canto rinunciare volontariamente al riferimento ai sensi è un atto di grande coraggio. Sono i sensi che ci rapportano al mondo. Attraverso i sensi la nostra biologia sa se è al sicuro o meno, se una cosa è piacevole o sgradevole, se è da ripetere o da evitare. Da quando siamo nati i sensi sono il nostro riferimento principale e, nella maggior parte dei casi, non veniamo educati alla possibilità di trascenderli.
Non sappiamo nemmeno che c’è tutto un mondo oltre questa Grande Barriera. Un mondo che ci riguarda molto da vicino. È la nostra dimensione spirituale, la nostra trascendenza, la nostra casa cosmica. Una dimensione che non soggiace al tempo e allo spazio. Il fatto di vivere in un’era materialista e consumistica non fa che accrescere il nostro attaccamento verso la dimensione sensoriale, la materia, gli oggetti, il potere, il denaro… Tutto questo aggrapparsi forma come una spessa cotenna che ci impedisce di contattare facilmente la nostra interiorità. Questa buccia dura e spessa è molto evidente negli allievi principianti, che però, nella maggior parte dei casi, sono sorretti da curiosità, entusiasmo, speranza e grandi aspettative. Li aspetta una sfida eroica: lasciarsi andare. Cedere il controllo. Affidarsi. Cambiare tutto a partire dalle fondamenta. Credere in qualcuno appena conosciuto che dice loro di mollare gli ormeggi e navigare nell’oceano sconfinato senza GPS.
Riuscire a percepire, e a percepirsi, oltre i sensi richiede sforzo e coraggio. Quello da annamayakośa, il corpo denso, a prânamayakośa, il corpo energetico, è un vero e proprio “trapasso”, che talvolta mette in difficoltà anche gli allievi avanzati. Ho usato apposta la parola «trapasso» perché per realizzare questo salto bisogna far “morire”, cioè eliminare ciò che è inutilmente rigido nel corpo e spazzare via i rimuginii che infestano il piano mentale. Pratiche come gli āsana statici, le tecniche meditative, i kryia, sono particolarmente utili per allontanarsi dalla dimensione percettivo-sensoriale.
L’esperienza del totale abbandono però può provocare paura, vertigine o fastidio nei principianti. Normalmente ci fermiamo del tutto quando vogliamo addormentarci. Scivoliamo nel sonno e a quel punto non è un problema se non sentiamo più il corpo. Invece nello yoga, se le tecniche sono ben guidate ed eseguite, si può sperimentare di essere svegli e non percepire più il corpo fisico. E questo, all’inizio, può spaventare. Esisto senza sentire il mio corpo. Aiuto. Che sta succedendo?
Inoltre, comunemente, non siamo abituati a restare soli con i nostri pensieri. Anzi, molto spesso non facciamo che evitare questo incontro con attività e stimolazioni di ogni tipo. Poi arriviamo sul tappetino e non sentiamo più il corpo, e veniamo assaliti da un’orda barbarica di voci interne. Un incubo, altro che benessere. Per questo lo yoga classico mette yama e niyama prima della pratica. Bisogna sapere come comportarsi prima di agire. Studiare la navigazione prima di avventurarsi in mare. Se l’allievo è ben preparato non si lascia intimorire dal sentirsi vivo, vitale, sveglio e consapevole nel “mondo alternativo” del silenzio sensoriale, e può sperimentare una grandissima gioia: l’espansione della Coscienza.
È questo l’obiettivo da ricercare nella pratica. È faticoso da raggiungere? Decisamente sì. Patañjali dice che occorre affidarsi al metodo con devozione, per molto tempo, senza interruzione (YS 1.14). In questo modo, un bel giorno, rimanere nella postura smette di essere faticoso e si trasforma in piacere, benessere, godimento. Proveremo la liberatoria sensazione di non voler essere in nessun altro posto al mondo se non in quell’āsana. Una volta sperimentato il piacere di trovare se stessi oltre la cortina del mondo fenomenico la ricerca delle abilità fisiche passa in secondo piano.
Smettiamo di pensare l’āsana come un veicolo di trasformazione cosmetica e lo viviamo come esperienza di incontro mistico. Sat Tvam Asi, Tu sei Quello.
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Cosa ci porta a fare yoga? Per lo più la ricerca di abilità fisiche e il desiderio di stare meglio. E se invece la pratica ci portasse molto ma molto più in alto? Se ci portasse in una dimensione di luce, beatitudine e perenne comunione? La cosa ci atterrisce o ci attrae? Siamo pronti a questo viaggio, e cosa siamo disposti a fare per arrivarci?
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