Il curriculum di Enzo Santin è senza dubbio molto ricco. Innanzitutto è stato un musicista e autore televisivo di successo, suoi i testi di alcuni fra i personaggi più famosi di Antonio Albanese e della Gialappa’s Band dei tempi d’oro. Ma quello che pochi conoscono è il mondo interiore di Santin, che coniuga la pratica di raja e hatha yoga con la passione per le stelle e per l’astrofotografia.
Enzo è sempre stato un astrofotografo. Nel corso degli anni ha messo insieme una fantastica strumentazione e un vero e proprio osservatorio astronomico. Ma non chiedetegli «dove» punta il telescopio verso il cielo, sarebbe come chiedere a un raccoglitore di funghi porcini o di tartufi dove li trova. Come si dice in Sicilia – dove lui ora vive – «levateci mano», lasciate perdere.
Ma, ovunque sia questo luogo privilegiato, purtroppo ormai ogni occhio proiettato sull’assoluto deve fare i conti con due grandi ostacoli: l’inquinamento luminoso e il cambiamento climatico. A parte poche zone oltre il deserto di Atacama, alcune zone dell’Hindukush e del New Mexico, infatti, la cosiddetta volta celeste non è più visibile. E questo non riguarda più solo l’occhio nudo, ma anche le strumentazioni, che si trovano immerse in nubi, nebbie e aure che rendono la loro stessa esistenza inutile allo scopo per cui sono state progettate.
L’avvento delle app astronomiche mi ha resa consapevole del fatto che quello che tutti noi vediamo a occhio nudo non è che una percentuale ridicola rispetto a ciò che la volta celeste veramente contiene. Basta aprire l’app, puntare il telefono in alto, verso quella singola stella nel cielo oscuro, per rimanere sbigottiti di fronte alla reale miriade di stelle, pianeti e costellazioni presenti in quei pochi centimetri rappresentati dalla schermata del telefonino. Anno dopo anno, luce dopo luce, faretto dopo faretto, abbiamo oscurato illuminandola, la volta celeste. Ma ci siamo chiesti cosa voglia dire, effettivamente, alienare la volta celeste alla vista dell’uomo? Chiunque abbia letto le Upanisad conosce la risposta. Chi non le ha lette può comunque immaginare la reazione di chi, 5 mila anni fa, si trovava a osservare la magnificenza della Via Lattea semplicemente alzando gli occhi al cielo dopo il tramonto.
Se ogni sera dopo cena guardi le nubi di Magellano è ovvio che ti senti intimamente connesso col divino. È ovvio che nessun ego possa sopravanzare. Capisci di essere polvere di stelle, cosmo, luce, suono, di far parte del Tutto. Noi, se va bene, ogni sera guardiamo la tv o Netflix. La cosa veramente triste è che noi, che ci definiamo umani tecnologicamente evoluti, questa alienazione trascendentale l’abbiamo realizzata in poco più di cent’anni. E non ci siamo giocati solo “il cielo”, ma abbiamo completamente tagliato fuori dalla nostra esperienza ogni connessione con l’elemento divino, con quella indispensabile trascendenza che la volta celeste ci suggeriva.
Per questo abbiamo deciso di incontrare Enzo Santin. Perché lui osserva e fotografa quello che noi non possiamo più vedere. E forse può rispondere alle eterne domande che tolgono il sonno a chiunque percepisca una realtà, oggi due volte invisibile.
Santin, cosa l’ha spinta (e la spinge ancora oggi) a fotografare corpi celesti lontani migliaia di anni luce?
«Il mistero, la meraviglia e la sfida. Ricordo una notte stellata di cinquant’anni fa a Ostuni in Puglia: ero un ragazzo di città, che di stelle ne aveva viste pochissime, avevo otto anni e accanto a me c’era mio cugino Francesco che ne aveva dieci di più. Eravamo seduti sul cocuzzolo di un trullo e Francesco cominciò a indicarmi le costellazioni che ruotavano silenziose e maestose stagliandosi su un cielo scurissimo (a quell’epoca l’inquinamento luminoso era ancora tollerabile)».
E cosa ha scoperto?
«Ho scoperto così che le stelle si raggruppavano in figure enigmatiche e che a ogni costellazione corrispondeva un nome. E che anche le stelle ne avevano uno, il più delle volte affascinante, Antares, Deneb, Altair, Aldebaran, Sirio, nomi latini, nomi arabi, sonorità misteriose che attribuivano a ogni singola stella una propria identità. Le stelle brillavano sopra di me così lontane eppure così vicine – al contempo immanenti e trascendenti – e mentre Francesco mi illustrava la volta celeste, le stelle cessavano di essere una moltitudine confusa e indistinta, ma ogni singola stella si trasformava – davanti al mio sguardo affascinato – in un’entità palpitante, dotata di qualità: quasi fosse viva. Durante quella notte d’estate di 50 anni fa, sono nati il mio senso di mistero e meraviglia di fronte al cielo stellato, sentimenti che mi accompagnano ancora oggi. L’aspirazione a indagare il mistero della volta celeste, col passare degli anni si è trasformata in una vera e propria sfida: l’astrofotografia. Fotografare oggetti la cui luce è talmente debole da non essere visibile a occhio nudo. Rendere visibile l’invisibile».
Cosa si prova a elaborare una foto le cui luci appartengono alla fantascienza?
«È come fotografare un paesaggio alieno. Al posto di colline fiumi e mari, il “paesaggio” è composto da nubi rossastre di idrogeno, addensamenti di luce verde azzurra emessa dall’ossigeno ionizzato, polveri interstellari oscure che solcano il campo inquadrato come fiumi, nebulose dalle forme bizzarre e delicate, galassie a spirale, stelle vicine (relativamente) e stelle lontanissime che appaiono come piccole sfere luminose».
Ci sta portando su un’astronave interstellare…
«Quando si fotografa il cielo si viaggia nello spazio, ma la cosa meno intuitiva è che si viaggia anche nel tempo: i fotoni che compongono la luce hanno una velocità finita, ci mettono del tempo per raggiungerci e siccome le distanze in gioco sono (appunto) astronomiche, ecco che si verifica un fatto straordinario: se per esempio stiamo fotografando la galassia di Andromeda, che è lontana due milioni e mezzo di anni luce, in realtà stiamo fotografando la galassia com’era due milioni e mezzo di anni fa. Quindi l’immagine che otteniamo quando fotografiamo il cielo è una stratificazione di piani luminosi più o meno lontani nello spazio ma anche nel tempo».
Abbiamo spostato la nostra capacità di osservazione del cosmo al di là dell’atmosfera terrestre, costruendo nuovi telescopi. Quale impatto ha questa strategia?
«Il telescopio spaziale James Webb è entrato in attività da poco tempo e già sta dimostrando tutte le sue enormi potenzialità: le prime foto che ha ripreso hanno stupito milioni di persone per la loro bellezza mozzafiato, ma anche gli addetti ai lavori per il loro altissimo valore scientifico. Nel prossimo futuro sarà in grado di ottenere risultati impensabili prima d’ora. Come il suo predecessore (il telescopio spaziale Hubble), anche il telescopio Webb orbita al di fuori dell’atmosfera terrestre, ma mentre Hubble orbita intorno alla Terra, il Webb è stato posto su un’orbita molto più lontana, per tenerlo al riparo dalla luce e dal calore di Sole, Terra e Luna, a una distanza di circa 1,5 milioni di chilometri: quasi quattro volte la distanza media tra la Terra e la Luna».
È una distanza difficilmente immaginabile…
«È una distanza enorme, ma confrontata con la scala delle distanze cosmiche, rappresenta un’inezia. Molti pensano che il punto di forza del telescopio spaziale Webb sia proprio questa sua “maggiore vicinanza” agli oggetti astronomici che deve osservare, ma non è affatto così».
Ci aiuti a capire.
«Prendiamo in considerazione la stella più vicina a noi, Proxima Centauri: la sua distanza dalla Terra è di circa 4 anni luce. L’anno luce è un’unità di misura usata in astronomia ed è la distanza che percorre la luce in un anno. E cioè 9.460 miliardi di chilometri. Se confrontiamo la distanza dalla Terra del telescopio Webb che è di “soli” 1,5 milioni di chilometri, con la distanza di Proxima Centauri e cioè 9.460 miliardi di chilometri moltiplicati per 4 anni luce, ci rendiamo subito conto che il telescopio Webb in realtà si sarebbe “avvicinato” a Proxima Centauri per una frazione di spazio del tutto irrilevante. Sarebbe come pretendere di vedere la Luna più da vicino saltando in groppa a qualcuno. L’enormità delle distanze cosmiche è al di là della nostra comprensione: sono davvero astronomiche, nel vero senso della parola. Infatti, se consideriamo la galassia più vicina a noi, la galassia di Andromeda, scopriamo che essa dista 2 milioni e mezzo di anni luce. Un abisso insondabile davanti al quale anche la distanza enorme di Proxima Centauri impallidisce».
Ma il cosmo non finisce neppure lì…
«No. Anche questa distanza inconcepibile, diventa irrisoria in confronto a quella degli oggetti che il Webb è in grado di osservare: infatti il telescopio spaziale è stato progettato appositamente per osservare galassie infinitamente più lontane, distanti svariati miliardi di anni luce: se questa non è trascendenza…
Ma allora, se la ragione per cui il telescopio Webb è stato posto al di là dell’atmosfera non è la sua “maggiore vicinanza” con gli oggetti che deve studiare, qual è il vero motivo?
«La risposta è proprio… l’atmosfera. La nostra amica atmosfera, senza la quale la vita sul pianeta non sarebbe possibile, per i telescopi costruiti sulla Terra è un vero problema: per prima cosa l’atmosfera assorbe e disperde in parte i preziosi fotoni (le particelle di luce) che giungono fino a noi da distanze insondabili. Immaginate il viaggio di un fotone che attraversa indisturbato tutto il cosmo per miliardi di anni luce e finalmente raggiunge l’atmosfera terrestre. Lo spessore dell’atmosfera è di circa 16 chilometri e in questi ultimi pochi chilometri, il nostro prezioso fotone potrebbe essere assorbito oppure deviato e quindi potrebbe non raggiungere mai il telescopio che lo attende pazientemente. Per questo motivo i telescopi costruiti sulla Terra sono posti su altipiani o montagne, per ridurre il più possibile lo spessore e l’impatto dell’atmosfera: per esempio i telescopi di La Silla in Cile a 2400 metri sul livello del mare oppure quelli sul vulcano Mauna Kea nelle Hawaii a 4200 metri, che sono strutture gigantesche dotate di specchi del diametro anche di dieci metri».
E poi?
«E poi c’è l’instabilità climatica: si deve trovare un luogo che garantisca il maggior numero possibile di notti senza nuvole, e questo rende ancora più difficile la ricerca del sito ideale. Per non parlare dell’inquinamento luminoso. Il telescopio spaziale Webb non conosce queste limitazioni. Orbita nello spazio oscuro e vuoto ed è al riparo da tutto ciò. Rappresenta il nostro avamposto più avanzato che si affaccia sul cosmo: il suo sguardo penetrante attraversa lo spazio e il tempo, si spinge ai limiti dell’universo. A un battito d’ali da quando tutto ebbe inizio».
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