Durante le lezioni di Yoga si parla di corpo energetico e di sensazioni sottili, ma spesso questi elementi sono molto difficili da comprendere, soprattutto per gli allievi principianti. In realtà corpo energetico e sensazioni sottili NON possono essere compresi cognitivamente, perché fanno parte di un registro di esperienza che, per la fisiologia tantrica, e dunque hatha-yogica, è “separato” dalla mente ordinaria, ma che può essere allenato ad emergere attraverso alcune pratiche di Yoga.
Per tutti è difficile rapportarsi col corpo energetico perché viviamo totalmente immersi nella dimensione percettivo sensoriale, quella in cui predomina l’involucro più denso, il corpo fisico, annamayakośa. La gran parte del tempo siamo totalmente sedotti dalle sensazioni forti e lo stile di vita consumistico, nel quale viviamo, ci induce a ricercare esperienze e sensazioni sempre più intense. Anche il tempo che trascorriamo sui social media accresce il nostro legame coi sensi. Nello schermo del nostro smartphone si rincorrono immagini e video senza soluzione di continuità. Ipnotizzati dall’infinite-loop perdiamo il senso del tempo, dell’io e del mondo e alla fine non sappiamo più nemmeno cosa diavolo stiamo guardando. La mente inferiore, l’unica attiva durante queste interazioni, genera emozioni, desideri e giudizi che non vengono sufficientemente elaborati, e che finiscono nel contenitore dell’inespresso e dell’inesprimibile. Con conseguenze a volte devastanti.
L’altra faccia della medaglia è il corpo fisico. Anche questo aspetto della nostra realtà esistenziale soccombe sotto la tirannia delle immagini e dei condizionamenti sociali, che spostano sempre più in là l’asticella dell’accettazione e della consapevolezza di sé. Il corpo ci fa sentire le sensazioni e allora lo mettiamo al centro di tutto. Lo amiamo, lo odiamo, lo paragoniamo, lo bistrattiamo, spendiamo cifre impossibili per diete e strategie atte a modificarlo e uniformarlo a certi canoni o a nostre idee e suggestioni. Lui ci parla, in molti modi, arriva perfino a gridare (con le malattie), ma noi niente. Imperterriti. Sordi. Ciechi. Quella verità (satya) non la vogliamo vedere. Eppure viene dal corpo energetico! È lì, a portata di mano. Ci parla, a volte ci grida contro. Ah! se solo sapessimo come si fa ad ascoltare.
Capita a tutti, prima o poi, specie quando le cose vanno male, di udire una voce interna. Krishna chiama Arjuna. Pronto Arjuna? Ci sei? Rispondi. Guarda che stai male. Fai qualcosa. Bhagavatizzati! Reagisci. Un barlume di consapevolezza ci mostra la via verso l’azione. Verso qualcosa che ci smuova dal pantano dove siamo finiti. Magari vado a fare yoga. L’idea sarebbe anche giusta se non fosse che la grande maggioranza dei corsi di yoga proposti attualmente non fa che rafforzare l’attaccamento col corpo denso. Āsana, āsana, āsana. Sequenze da eseguire alla perfezione. Limiti da oltrepassare. Abilità fisiche da ottenere e mostrare, costi quel che costi. Ma per fare quello yoga lì ci vuole un fisico bestiale, come diceva un cantautore qualche anno fa. Mentre lo Yoga è per tutti. Anzi no. Lo Yoga è per chi ha deciso di fermare la ruota dei condizionamenti mentali e lotta come un leone per riuscirci.
Gli allievi principianti iniziano sempre a praticare con una richiesta legata al corpo o cercano un rimedio all’ansia e all’insonnia. Dallo yoga vogliono ottenere qualcosa di tangibile, possibilmente subito. È compito dell’insegnante mostrare, con delicatezza, ciò che si cela sotto i profondi condizionamenti dell’allievo. La pratica di āsana per un principiante può essere l’inferno o il paradiso. Tutto dipende da come viene guidato a farla. Si può andare nella direzione della ricerca di abilità fisiche, della competizione, della sfida, del superamento dei limiti (ma non ne abbiamo già abbastanza di tutto questo nella vita quotidiana?) oppure nella direzione dell’accettazione di sé (che non significa lasciarsi andare), dell’accoglienza, della gratitudine, della consapevolezza, della ricerca di abilità meta-cognitive, dell’espansione della Coscienza.
Lo Yoga ci insegna che abbiamo cinque corpi, cinque involucri. E però scegliamo di stare in ostaggio del più denso. Quello meno interessante. Nella pratica di āsana abbiamo la possibilità di conoscerli, di percepirli, di farne esperienza. E invece ci mettiamo a tirare muscoli e tendini, a soffrire fisicamente e psicologicamente: “ahi, porca miseria”, “devo resistere”, “non ci arriverò mai”, “sono un rottame”, “lo faccio male”, “ho troppa pancia”… Altro che corpo energetico. Se affrontiamo l’āsana con questa mentalità il nostro lavoro si ferma in superficie. Il che, comunque, non è una cosa totalmente da buttar via. Anzi. Abbiamo iniziato tutti da lì.
Infatti succede che, piano piano, praticando oggi, domani e dopodomani, con pazienza e determinazione, senza pensare ai risultati materiali, cioè con quello che lo Yoga chiama tapas, abhyâsa e vairāghya, qualcosa comincia a cambiare. Appena l’āsana perde quell’importanza che gli davamo all’inizio lo eseguiamo “meglio”. Ma non è il corpo che è cambiato, è cambiata la nostra prospettiva. Abbiamo imparato il metodo giusto. Ci siamo arresi (Īśvarapranidhana)a qualcosa di più grande, abbiamo imparato a distinguere (viveka) la forma dalla Coscienza.
Ma come è stato possibile? Abbiamo usato una precisa strategia. Entriamo nella pratica di āsana assumendo una forma che all’inizio mette insieme corpo fisico, mente cognitiva e respiro. Una volta assestati nella posizione non ci sono più istruzioni da eseguire, quello è il momento in cui la mente cognitiva va spenta, per dirigersi verso la concentrazione. Il corpo fisico, nell’immobilità, stacca gli ormeggi dalla dimensione percettivo- sensoriale e può scomparire, facendo emergere il corpo energetico. Il respiro si trasforma da meccanismo di scambio di elementi chimici a ritmo consapevole di flussi vitali, che si espande in tutto il corpo e raggiunge ogni cellula. Questa è l’atmosfera psico-fisica ideale per cercare l’espansione della Coscienza, vero obiettivo della pratica.
Finché il corpo fisico invade il campo della Coscienza, finché la mente è aggredita dal fare e dal volere, finché il respiro è privo del supporto della consapevolezza, non possiamo percepire gli involucri più sottili. È il classico cane che si morde la coda: il corpo energetico, prânamayakośa, è contattabile solo quando la nostra mente è ferma, serena e appagata. Ma questo tipo di mente si ottiene solo quando siamo stati capaci di uscire dall’identificazione col corpo fisico. Il che è possibile attivando pramana, il giusto ragionamento, che è una facoltà cognitiva. Ma la mente cognitiva a un certo punto non l’avevamo spenta? Sì. Ma ci serve mantenere attivo pramana, che si può paragonare alla lucina rossa che resta accesa quando la Tv è in stand-by. Grazie a questo collegamento che rimane sottogiacente e attivo siamo in grado di percepire il manifestarsi della dispersione mentale e a correggere immediatamente il tiro. Se l’āsana viene mantenuto a lungo, nell’immobilità, con queste accortezze sul piano mentale, la mente superiore (vijnanamayakośa) riuscirà a prevalere sulla mente inferiore (manomayakośa), e la percezione dei corpi più sottili diventerà palese.
In cosa consiste la progressione nella pratica dello Yoga? Non certo nelle abilità del corpo ma nel saper distinguere queste due facoltà della mente, per poi affidarsi alla voce della saggezza. Quante volte mettiamo a tacere quella vocina che ci incita ad uscire dalla nostra confort zone? Quante volte vorremmo mettere in atto quello che Krishna e il grillo parlante ci consigliano di fare? La pratica di āsana serve proprio a premere questo interruttore. Ad accendere l’ascolto, l’introspezione e a spegnere l’ego, i sensi, i condizionamenti del presente e del passato. L’āsana può diventare il palcoscenico in cui possiamo fare un importante salto dimensionale, invece molte volte lo sprechiamo cercando abilità fisiche che potremmo ottenere facilmente in sala attrezzi o facendo ginnastica. Sta a noi decidere come usare l’āsana durante la pratica Yoga. Così come sta a noi, ogni mattina, decidere come affrontare la giornata.
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