Il 4 gennaio 2021 credevo che nulla sarebbe cambiato dopo un piccolo intervento per una lesione al menisco del ginocchio sinistro. Da alcuni mesi, quello che sembrava un semplice fastidio poi trasformato in dolore, era diventata una condizione invalidante. Non solo non riuscivo più a correre, non ero un maratoneta ma è un’attività che amavo, ma anche il camminare era divenuto difficile. La mia attenzione, durante la pratica yoga personale, nella condivisione durante gli incontri, e nella vita in generale, era attratta costantemente da questo rumore di sottofondo.
Il dolore fa chiasso perché vuole ascolto. Era come un sentirsi bussare alla porta. Toc toc toc. A volte il limite era segnato dalle fitte, a volte dalle precauzioni, insomma era tutto un girarci intorno. Dopo aver tentato numerose altre strade prima di arrivare alla chirurgia, il consiglio dell’ortopedico di intervenire con quei due piccoli forellini per un breve intervento di un quarto d’ora a sollevarmi da questa condizione che perdurava da mesi, arrivò come un’opzione necessaria.
Così il mio 2021 iniziò con uno stop e un “tagliando”.
A due ore dall’intervento mi sentivo così in forma da pensare di poter guidare io stesso la macchina per tornare a casa, cosa che sarebbe stata un po’ azzardata, e che non ho fatto, ma giusto per descrivere il mio stato di salute. Nella settimana successiva l’intervento, la guarigione galoppava senza sosta. Mi riprendevo così velocemente e senza impedimenti che il chirurgo che mi operò, felicemente stupito, mi tolse ogni medicazione dopo tre giorni indicandomi una leggera fisioterapia all’occorrenza, da decidere, per la sua durata, io personalmente. Stavo alla grande. Così, al settimo giorno dall’artroscopia entrai in un centro fisioterapico e mi abbandonai attivamente nelle mani di chi sa il fatto proprio in termini di riabilitazione.
Lavora, lavora, lavora, sin dai primi incontri, però, non sentivo più quella leggerezza iniziale. Quella facilità nel movimento che dopo 4 giorni dall’intervento mi aveva permesso di fare un breve video da inviare al fisioterapista dove le mie gambe erano talmente libere da disagi, che mi era stato possibile fare scherzosamente anche un accenno di un passo di tip tap (dono giocoso della formazione teatrale), si trasformò in qualcos’altro. Tutto, progressivamente cominciò a diventare più difficile. Stavo peggio della condizione di partenza.
Ora dopo ora, giorno dopo giorno il mio ginocchio e la gamba intera, diventavano sempre più rigidi, legnosi, l’articolazione rifiutava di fare il suo lavoro e, mentre i miei compagni di cammino nella stessa struttura e per intervento analogo uscivano dal centro uno a uno in piena forma, alla terza settimana io camminavo ancora a fatica e con forte dolore. Sentivo che l’arto non rispondeva alla richiesta delI’azione, come avrebbe dovuto. Anche a detta dei professionisti che mi accompagnavano c’era qualcosa che non quadrava. All’input della mia mente di muovere la gamba, non seguiva la conseguenza di una risposta dell’arto.
La caviglia stava diventando di marmo. Il piede non riusciva a muoversi. Un blocco unico dall’anca al piede. Un test specialistico mostrava che la muscolatura aveva perso oltre il 65% della sua capacità e che si presentava una “neuropatia da intrappolamento”. In pratica il segnale neurologico, l’impulso che dal cervello avrebbe dovuto far muovere la muscolatura, si interrompeva sopra al ginocchio. Caviglia bloccata, rotula scesa. Stop alla deambulazione naturale. Errore in sala operatoria.
E ora? Tra dolore e pensieri, la mia mente rifiutava di fermarsi. E io che solo pochi giorni prima mi sentivo un treno in corsa, non solo avevo deragliato dal binario (questo concetto tornerà caro come una benedizione), ma da quella che pensavo sarebbe stata un’esperienza migliorativa delle mie condizioni, ero passato a uno stato di impossibilità del mio corpo di ripristinare le condizioni precedenti. Un po’ come il segnale che in questi ultimi decenni il nostro pianeta lancia a causa dei danni generati da questo buffo essere che si crede il padrone della Terra. L’uomo, invece di sentirsi un affittuario temporaneo, qual è, rispettoso di ciò che lascerà presto, devasta il dono meraviglioso ricevuto per condividere l’esperienza-Vita, con maltrattamenti senza precedenti che hanno generato inquinamento globale e cambiamenti climatici che fanno tremare. Segnali che si chiamano anche nuove malattie, epidemie.
La recente pandemia sembrava invocare in tutti i modi alla consapevolezza, all’accorgersi. Creatore di desertificazione, estinzione di specie animali, deforestazione selvaggia, allevamenti intensivi, abuso di prodotti chimici. E poi di guerre ovunque, invasioni dell’ego sull’ego. Dove tutto è un appropriarsi di ciò che non ci spetta, ma serve a ribellarsi a ciò che l’altro ha ottenuto con la menzogna, senza passare per la via del buonsenso. Vortici mentali contro vortici mentali. Tutto continua spingerci verso un ultimatum: “Fermati e ascolta”. Fermati davvero, non fare finta con un breve rallentare per poi tornare esattamente come prima. Come fu durante il covid dove tutti sembravano fulminati sulla via di Damasco verso una vita nuova, e giuravano a loro stessi cambiamenti epocali (mai promettersi record!) per poi tornare nel sentiero dell’“ignoranza” in pochi mesi. Forse anche io avevo chiesto troppo al mio pianeta-persona e non avevo ascoltato le necessità dietro i sintomi.
«Devi reimparare a camminare». Queste furono le parole di un angelo accogliente e sorridente. Un nuovo professionista della riabilitazione. Devi reimparare a camminare. Rintocchi sonori che vibrarono in me come un gong, espandendo la loro eco in ogni direzione. Non era tanto il fatto che mi fossi fermato, stava accadendo altro. Dovevo cambiare passo. Ritrovare direzione e ritmo. Microcosmo riflesso del macrocosmo. La vita trovò da sé il modo per condurmi ad ascoltarmi.
L’aspetto fisiologico certo, era il portone d’accesso ad altro. Il corpo nello Yoga è il primo involucro in cui iniziamo il viaggio verso l’interno (Annamaya Kosha). Il danno in superfice ha una radice in profondità, nel corpo energetico, il secondo involucro (Pranamaya Kosha), generato nel livello ancora più profondo, la mente (Manomaya Kosha). Questa stratificazione è figlia irrequieta di una condizione dell’intelletto, priva di condizionamenti dalle influenze esterne, alla quale torniamo negli stati meditativi (Vijnanamaya Kosha). Diciamo la mente intuitiva, libera da condizionamenti, da retaggi, dal subconscio insomma.
A cosa sarebbe servito questo apparente imprevisto, se l’avessi lasciato passare senza vedere oltre l’aspetto strettamente tangibile. Ispezionabile. Quantizzabile. Ecografabile. Insomma visibile con gli occhi che separano il giusto dallo sbagliato secondo regole prestabilite. Il buono dal cattivo secondo consuetudini acquisite. Quel punto di vista del mio/tuo che è la percezione superficiale della nostra osservazione reattiva. La modalità con cui nei principi dello yoga, ahamkara, una delle parti della nostra mente, nel connotarci in un’identificazione, stabilisce canoni fissi entro cui girare come topini in una ruota sotto l’incitazione interiore “Lo so io”.
E mentre con pazienza, impegno, tantissimo impegno, ricominciavo lentamente anche la pratica yoga personale, la meditazione, in un corpo che richiedeva di essere ascoltato in diversi blocchi energetici dietro le nuove tensioni, in una mente che imparava una nuova calma attraverso l’accoglienza e l’adattamento, riprendevano forma un movimento e un’immobilità nuovi. Questo “reimparare a camminare” indicava nuove strade. Uscire dagli antichi passi, dalle abitudini, dalle convinzioni, da ciò che di rigido in me impediva di cambiare.
In età adulta è più facile cadere nel binario dell’automatismo. La mente ama il ripetersi consolidato delle cose e, benchè possiamo pensarci in continua evoluzione, a volte non ci accorgiamo di aver creato zone di comfort che rischiano di divenire stati di immobilità e di inaridimento. Assenza di flusso. Sterilità. Rimaniamo fermi nei vecchi solchi. Accucciati nella certezza dell’aver ragione. Pur non riconoscendo completamente questa sensazione come mia, perché ritenevo la vita un percorso di consapevolezza da parecchio tempo, forse un lento sbadiglio dell’abitudine stava rischiando di addormentare nel binario (viva il deragliamento!) del già visto-sperimentato-conosciuto, una vita che ha senso solo se ti accorgi che parla un linguaggio che va riscoperto, reimparato ogni giorno. L’esistenza sussurra in ogni istante note nuove, non è mai la solita nenia. Se non le sentiamo è perché non ascoltiamo bene.
Siamo gli unici esseri sensienti che possono meravigliarsi, stupirsi, e passiamo più tempo nella lamentela che nell’entusiasmo. Nel chiedere che nel dare. Quello che incontriamo, ogni evento, è tassello per ricomporci verso la nostra essenza, la gioia (Anandamaya Kosha), l’ultimo dei 5 involucri che lo Yoga indica come il rivestimento dell’essenza dell’essere umano). Ci sono volute molte settimane per “ritrovare il passo” nel vero senso della parola, ma tutto riprese vita e quel “tutto” mi conduceva, a mia insaputa, verso un periodo così intenso che, a posteriori, credo di aver attraversato abbracciando quello che sarebbe accaduto e le sfide che si sono presentate senza rifiutare o allontanare o “crollare”, forse proprio grazie a quel “Reimparare a camminare” che si era risvegliato.
Nei mesi successivi accompagnai verso la liberazione dal corpo, prima mio padre e poi mia madre. Papà in modo molto naturale, un passaggio quasi lieve. La morte è conseguenza della vita. E’lei a portare per mano verso di sé la più ambita sorella e non viceversa, come crediamo. Mia madre in modo più intenso e doloroso, per un cancro.
Di nuovo il messaggio era lo stesso “Devi reimparare a camminare”.
Noi cerchiamo di risolvere le cose. Cerchiamo di riportare le condizioni a uno status quo che precedeva un accadimento, invece che lasciarci integrare da questo, in una spontanea progressiva mutazione. Ogni esperienza che viviamo, ridistribuisce il nostro cammino, trasforma priorità e apre varchi infiniti. Nasce qualcuno? La vita cambia. Qualcuno se ne va? La vita cambia. Far finta di niente è non vivere davvero. È perdere l’occasione. Un fallimento, un successo, tutto trasforma i nostri passi. E tutto è parte del nostro viaggio. Ma ogni volta è necessario reimparare passo e tragitto. Sentire cosa non c’è più, cosa si è trasformato e cosa c’è ancora, nel nostro andare.
Da poco ho ripreso quello che mi aveva imposto il “Fermati e ascolta”, ho ricominciato a correre, ma in modo diverso. Corro per rallentare. Corro per riallinearmi con le cose che sfuggono in me, e che nel ritmo del respiro che cambia, riprendono il loro posto. Non corro per sbrigarmi o per raggiungere qualcosa. Corro per stare. Imparo la voce del corpo. Si può essere nel flusso in mille maniere. Nella presenza. Nulla al mondo vive senza movimento, senza un “andare verso”.
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