Nella pratica dello yoga, in particolare negli āsana, è inevitabile imbattersi nello sforzo fisico. Per entrare in una posizione e per mantenerla a lungo è necessario sollecitare, a volte intensamente, il corpo e contemporaneamente coinvolgere vīrya, la forte volontà. Ma qual è il giusto sforzo da impiegare nella pratica? Cosa dicono i testi?
Uno dei riscontri più significativi in merito allo sforzo ce lo dà Patañjali, nel verso 2.47 di Yogasūtra, quando ci dice che l’āsana si raggiunge allentando lo sforzo oppure fondendosi in modo meditativo con l’infinito. Parlare di allentamento di uno sforzo implica che in precedenza questa sollecitazione sia stata necessariamente messa in atto, allo scopo di raggiungere la configurazione fisica desiderata. Patañjali esprime chiaramente la necessità di abbandonare lo sforzo, se si vuole che l’āsana sia sthirasukham, cioè stabile e confortevole.
La parola sforzo entra a pieno titolo nella storia dello yoga fra l’XI e il XII secolo, quando Goraksanātha, il leggendario fondatore dell’ordine dei kānphata-yogin, scrive un trattato (andato perduto) che si intitola Hatha-yoga e un suo commento, il Goraksa-śataka. Kānphata-yogin significa” dalle orecchie forate”. Questo gruppo di yogin portava dei pesanti orecchini che allargavano e facevano pendere esageratamente il lobo inferiore delle loro orecchie, probabilmente per distinguersi da altri seguaci di Śiva. Sono proprio i kānphata-yogin, chiamati anche nātha-yogin, ovvero “signori dello yoga”, a dare origine alle pratiche di yoga tantrico, cioè alle pratiche di hatha-yoga, sulle montagne himālayane, nell’area bengalese. Lo hatha-yoga, la disciplina del corpo, può essere considerato il punto d’arrivo, dal punto di vista storico, di tutte le scuole di yoga presenti nel medioevo.
L’obiettivo dell’identificazione con la propria vera essenza (ātman) per sfuggire alla legge delle rinascite e alla paura della morte, si riversa sul corpo, che diventa lo strumento principale dell’indagine. E giacché la liberazione può essere raggiunta durante questa stessa vita, il corpo deve essere mantenuto in perfetto stato e, attraverso la meditazione, “divinizzato”.
Il primo maestro della scuola dei nātha, Adinātha, è avvolto nel mito e si dice che sia Śiva stesso. Invece il primo maestro in carne e ossa (ma anche su questa figura c’è tanta mitologia) si dice sia Matsyendra-nātha, di cui Goraksanātha fu diretto discepolo. Nel manuale di Goraksa, il Goraksa-paddhati, che è un commento del Goraksa-śataka, la parola hatha viene spiegata come composto di ha e tha, sole e luna, e lo yoga sarebbe la loro unione. Secondo questa scuola la parola hatha e la parola “sforzo” (addirittura “violento”), sarebbero sinonimi, e il riferimento sarebbe attribuito al passaggio dell’aria nelle due narici, associate ai due corpi celesti.
Sebbene non sia spiegato nel dettaglio, probabilmente s’intendeva con “sforzo” l’esercizio di inspirare dalla narice lunare (sinistra) e, dopo aver trattenuto lungamente, espirare dalla narice solare, e poi viceversa, costringendo lo yogin al distacco dal mondo sensoriale e alla concentrazione profonda su una dinamica respiratoria non ordinaria.
Similmente, una delle Upanisad dello yoga, la Dhyānabindu-upanisad, parla di prāna e apāna, associandoli all’inspiro e all’espiro e alla ripetizione del mantra ham! -sa! […] «giorno e notte l’anima dice e ripete a bassa voce 21600 volte questa formula… basta prenderne coscienza per essere liberati da ogni peccato!». Qui lo sforzo che si richiede allo yogin pare essere la presa di coscienza del mantra e della dimensione interiore, concetto già incontrato in precedenza, nella Katha Upanisad, che illustrava come l’uomo fosse stato creato con i sensi rivolti verso l’esterno: «L’autogeno [svayambhū] aprì le finestre (dei sensi) verso l’esterno: per questo motivo si vede ciò che è fuori, non ciò che è dentro di noi. Qualche saggio desideroso dell’immortalità, rivolgendo lo sguardo verso il suo interno, vide entro se stesso l’atman».
In sostanza, non avendo una naturale propensione a guardarsi dentro, lo yogin deve compiere uno sforzo per andare controcorrente rispetto al piano sensoriale e scorgere il sé interiore.
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